OLIMPIA GUAZZO, LA BELLEZZA DEI PENSIERI

di Umberto Martuscelli per Fiseveneto.com

2019.03.17 – Quando era in gara Olimpia Guazzo prima ancora che per l’esito agonistico della sua prestazione – positivo o negativo che fosse – impressionava soprattutto per una cosa: il suo atteggiamento, il suo comportamento, il suo… ‘modo’. Prima di tutto sembrava non fare mai alcuna fatica, mai, in senso fisico: il suo bellissimo viso dai tratti delicati non tradiva mai alcuno sforzo, mai uno sbuffo, mai un arrossamento di quelle guance che davano sempre l’idea della delicatezza della porcellana, mai un gesto di stanchezza o di eccessivo impegno. Ma anche psicologicamente si sarebbe detta la stessa cosa: mai un atteggiamento di esasperazione in positivo o in negativo, lo sguardo sempre pacato, l’espressione del volto sempre equilibrata, nessun gesto che potesse sottolineare la soddisfazione o al contrario la delusione per l’esito della sua gara e di quella del suo cavallo, o per una situazione contingente, o per un imprevisto comparso nel momento meno opportuno. E tutto questo in una ragazza molto giovane (nata nel 1992), che affrontava le sue esperienze agonistiche prima da juniores, poi da young rider, quindi i primi Gran Premi nella classe seniores.
A distanza di tempo – non molto, peraltro… – tutto risulta estremamente chiaro: Olimpia si è laureata in psicologia all’università di Padova nel 2016, ha fatto il tirocinio nel 2017, ha completato due master in psicologia dello sport, ha dato l’esame di Stato nel 2018. Nel 2019 Olimpia Guazzo seguirà le squadre che in rappresentanza del Veneto parteciperanno alla Coppa dei Giovani a Piazza di Siena e alla Coppa delle Regioni in Fieracavalli a Verona, così come tutti i ragazzi veneti che parteciperanno agli stage tenuti da Vanessa Ferluga e Jerry Smit. Nel suo ruolo di psicologa, ovviamente.

«Meglio dire mental trainer, perché la parola psicologo in Italia mette ancora molta soggezione nella gente. In realtà lo psicologo dello sport è solo una persona che aiuta l’atleta a mettere in ordine i pensieri in un momento di particolare caos. Nulla di più. Del resto chiunque abbia provato l’ansia da competizione nel ruolo di atleta sa bene che in quel momento particolare la lucidità di pensiero è la prima cosa a mancare… Lo psicologo dello sport soprattutto lavora in modo tale che gli aspetti mentali non incidano negativamente sull’attività del corpo».

Perché ha scelto di darsi a questa professione?
«Finita la maturità non avevo le idee molto chiare sul da farsi. Ma ho avuto la fortuna di avere dei genitori che mi sono sempre stati molto vicino e che mi hanno sempre molto capita e sostenuta. Essendo un anno in anticipo con la scuola perché da piccola avevo fatto la primina, mio padre mi ha detto: sei sempre stata brava con lo studio, ti sei sempre data molto da fare per far convivere scuola e sport, adesso se vuoi puoi dedicarti solo ai cavalli per un anno. Io in quel periodo montavo la mia cavalla Braise du Marq e tre puledri, e non me lo sono fatta ripetere due volte… Mi sono goduta un anno così. È stato il primo anno da young rider, in cui ho fatto tutte le selezioni per il Campionato d’Europa. E quell’anno il mio istruttore Nicola Rango aveva messo a disposizione dei suoi allievi uno psicologo dello sport».

Lei è sempre stata allieva di Nicola Rango?
«No. Ho cominciato con Gianfranco Zonta fino ai mei 12 anni, poi ho continuato con Nicola Rango e dopo il mio primo anno da young rider con Sante Bertolla, prima alla Scuderia del Santo di Marcello Carraro e poi al Circolo Ippico del Palazzetto di Rori Marzotto».

Quindi ha incontrato questo psicologo dello sport da Nicola Rango.
«Sì, e mi sono trovata molto bene, lui mi ha insegnato una serie di tecniche molto utili nella gestione della gara, nella concentrazione per riuscire a migliorare il modo in cui io per esempio ripassavo il tracciato del percorso. Però lavorando con lui io, che sono una persona molto impaziente, mi sono resa conto di una cosa: che se lo psicologo ha avuto un’esperienza personale e diretta dell’attività sportiva praticata dagli atleti con i quali sta lavorando, o comunque di una qualsiasi attività agonistica, riesce a trasmettere alcuni messaggi più velocemente di quanto possa fare una persona che invece quello sport non l’ha mai praticato. Il tempo in effetti, come si dice, cura tutte le ferite, però ci mette un po’: magari intanto un ragazzo fa anche in tempo a smettere, oppure a perdere comunque delle opportunità… Così mi sono detta: io voglio fare questo. E mi sono iscritta alla facoltà di psicologia».

Senza però smettere di montare a cavallo, ovviamente…
«Sì certo, ho continuato, mi sono iscritta all’università di Padova (Olimpia è nata e vive a Bassano del Grappa, n.d.r.) perché così mi potevo allenare la mattina molto presto, con Sante Bertolla alle 5.30 del mattino eravamo in sella, e poi andavo in facoltà. Ho fatto la triennale che è abbastanza standard, poi per la magistrale il bello è che ci sono un sacco di esami a scelta. Non esiste una vera e propria facoltà di psicologia dello sport, non esiste in Italia, ma io nella magistrale mi sono trovata molto bene a Padova perché ho potuto scegliere quali esami preparare, e ho scelto tutti quelli che fossero in qualche modo inerenti a quella che un domani sarebbe stata la mia professione».

E continuando a partecipare ai concorsi.
«Sì, fino a poco prima di finire l’anno di tirocinio».

Poi ha interrotto definitivamente oppure è… in pausa?
«Eh… diciamo che ufficialmente ho interrotto, in via ufficiosa potrei dire che sono in pausa. Io credo che l’equitazione sia una di quelle passioni che è molto difficile accantonare… Adesso le mie due cavalle Braise du Marq e Victoria du Seigneur le ho date a Marcello Manganotti, una per fare la mamma, l’altra sta facendo le gare con lui e a fine carriera farà la mamma a sua volta. Io confido di riprendere montando i loro puledri… ».

E quando si è trovata in concorso da studentessa universitaria ha vissuto la gara come un’esperienza utile per quello che stava studiando, oppure al contrario quello che stava studiando le è stato utile in gara?
«Beh… diciamo che avendo fatto molti esami di psicofisiologia mi rendevo conto di come effettivamente tutte le reazioni che io stavo studiando erano esattamente quelle che riscontravo durante i concorsi o durante gli allenamenti. E d’altra parte più acquisivo tecniche e conoscevo modalità per poter controllare alcuni aspetti della prestazione sportiva, e più ne risentiva positivamente il mio impegno agonistico. Mi sono usata sicuramente man mano come cavia per cercare di capire come poter riadattare quelle tecniche in un ambiente sportivo, quindi a delle persone che io ritengo essere ad altissimo funzionamento e che però vogliano migliorarlo ulteriormente».

Quali sono le problematiche più comuni, e magari anche quelle più difficili da risolvere e da affrontare, che secondo la sua esperienza si incontrano più frequentemente nel nostro sport?
«Io credo che qualunque amazzone e qualunque cavaliere a qualsiasi livello almeno una volta nella vita si siano sentiti rivolgere dall’istruttore il fatidico ordine: respira! Ecco, questa è la problematica principale. Dal punto di vista meccanico la parabola sul salto implica un momento di apnea: e se poi non si riesce a riprendere e mantenere una respirazione corretta durante lo svolgimento del percorso si creano tutta una serie di problematiche a catena che partono dalla mancata ossigenazione del cervello e quindi da una capacità di ragionamento più rallentata. E nel nostro sport poter prendere una decisione in tempi molto brevi è fondamentale. Dall’altra parte diminuisce anche l’ossigenazione ai muscoli, il che comporta in termini di riflessi una maggiore lentezza nella risposta, ma anche una minore raffinatezza nel movimento: e sappiamo tutti benissimo che nel nostro sport il dosaggio dell’intensità di un’azione spesso è determinante. Spesso questo tipo di ragionamento manca. Per esempio: perché gli errori sull’ultimo ostacolo? Non si capisce perché: poi a guardare meglio si scopre che si è fatto quasi tutto il giro in apnea. Quindi il punto è che anche se si sa esattamente cosa bisogna fare, in realtà non ci si riesce perché il nostro cervello e i nostri muscoli non sono in grado di lavorare al meglio».

Soprattutto in uno sport che comporta percentuali molto alte di ansia ed emotività nell’atleta.
«Certo. In effetti l’ansia da competizione è un problema trasversale, comune a quasi tutti gli sport, però nel nostro si manifesta massimamente quando si fa parte di una squadra perché noi in prevalenza facciamo uno sport individuale, non siamo abituati allo sport di squadra come per esempio chi lo fa per l’appunto in una squadra. Ma poi tantissimo lavoro può essere fatto a livello propriocettivo… Sì, ok, la testa, i pensieri e le emozioni, ma chi dice ai muscoli di muoversi è il cervello, non è che il muscolo si contrae di sua spontanea iniziativa… Propriocettivo sta a significare la percezione che uno ha di sé stesso e dei propri movimenti: riuscire a sentire il peso del proprio corpo, la posizione delle parti del proprio corpo, oppure anche la capacità di dosare in modo corretto l’azione sulle redini o con la gamba. A volte può darsi il caso che ci sia un po’ di… sordità e che per questo non si riesca a progredire nella crescita nonostante le ore e ore di allenamento… e il motivo può essere anche questo, la mancanza della consapevolezza di queste dinamiche».

Ha avuto modo di riscontrare spesso risultati positivi nell’applicazione del suo lavoro sul campo in questo senso? Su sé stessa e su altri?
«Sì, direi in entrambi i casi. Già partire dal lavoro sulla respirazione può far ottenere tantissimi benefici, perché è la parte fondamentale e soprattutto è la modalità principale con cui noi possiamo agire su tantissimi aspetti inerenti la parte mentale di una prestazione sportiva. Ci sono tantissime tecniche che si basano sulla respirazione utili per diminuire l’ansia o per migliorare il focus attentivo o per riuscire a bloccare i pensieri interferenti negativi. Quindi quella è sicuramente la base di tutto anche perché è immensamente vero quello che ci viene detto fin dal primo momento in cui montiamo in sella, cioè che il cavallo sente tutto quello che siamo e sentiamo noi: se noi siamo arrabbiati, o nervosi, o in ansia lui lo sente e reagisce di conseguenza. E una delle prime cose che cambia a seconda della nostra emotività è la respirazione, assieme ad altri parametri fisiologici come la frequenza cardiaca, la tensione muscolare… il cavallo sente tutto questo e cambia il suo modo di essere di conseguenza».

Il fatto che lei abbia praticato lo sport agonistico aumenta la sua autorevolezza nei confronti dell’interlocutore al quale lei rivolge la sua professionalità?
«Non certo per il curriculum sportivo, perché io ho fatto belle esperienze da young rider e poi qualche Gran Premio da seniores, ma nulla di più… Ho notato invece che mi rende più autorevole il fatto di poter fornire degli esempi concreti relativi a ciò di cui parlo. Dico sempre ai ragazzi con i quali lavoro che io mi considero prima di tutto un’atleta… cioè un’ex atleta, e poi una mental trainer. Spesso è difficile per un atleta iniziare a lavorare sugli aspetti mentali della sua prestazione, perché da un lato sono cose cui si fa poco caso, ma più ancora sono cose su cui si ragiona poco. C’è difficoltà anche solo a rispondere alla domanda “quali sono gli aspetti mentali del tuo sport?”. Invece poter dare degli esempi concreti all’atleta lo fa sentire capito, gli dà la certezza di trovarsi di fronte a una persona che non sta parlando solo sulla base di concetti astratti che non hanno alcun tipo di base concreta bensì a proposito di cose reali, e da qui nasce eventualmente la maggiore autorevolezza».

Lei adesso sta lavorando come libera professionista?
«Sì, con alcuni atleti privatamente. E poi mi ritengo molto fortunata perché ho ricevuto l’incarico dal comitato regionale veneto della Fise di seguire la preparazione mentale degli atleti che faranno gli stage con Vanessa Ferluga e Jerry Smit per questa stagione sportiva, e poi di accompagnare le squadre che faranno Piazza di Siena e Fieracavalli. Di questo sono davvero molto contenta».

Dopo aver maturato una serie di belle esperienze sul campo, quali sono le cose che le danno più soddisfazione nel suo lavoro?
«Vedere che i ragazzi si rendono conto di alcuni processi che prima passavano sotto soglia. Questa presa di consapevolezza da parte loro è la mia soddisfazione più grande, perché poi è quella che servirà. Il mio lavoro dura lo spazio che gli dedichiamo, ma questa consapevolezza rimarrà nel tempo ai ragazzi come strumento in più su cui poter fare affidamento. La mia paura era che il mio lavoro potesse rivelarsi sterile: efficace nell’immediato ma poi evanescente in seguito. Invece vedere che nei ragazzi c’è la presa di coscienza di cose che prima non consideravano, come del resto nemmeno io stessa consideravo a suo tempo, è la cosa più bella».

Non le viene mai un po’ di ansia o di preoccupazione all’idea di non riuscire invece a entrare in comunicazione con il suo interlocutore, o comunque di non riuscire a condurlo lungo questo percorso nella maniera migliore?
«Beh, credo che questa sia un po’ la paura tipica di tutte quelle professioni che basano la loro essenza sulla relazione. Come anche nel caso di un istruttore, di un allenatore. Io mi ritengo fortunata in primis perché sono stata dall’altra parte della barricata, e vedo che questo mi aiuta tantissimo a entrare in relazione con i ragazzi e a trasmettere loro le cose. Più che altro direi che mi accorgo di riuscire a farli riflettere in modo diverso, ecco. Io in effetti non trasmetto niente, le risposte le hanno già tutte loro. Credo poi che nell’arrivare a fare questo lavoro mi abbiano aiutata proprio i cavalli: lavorare con loro ti porta a dover essere molto più sensibile rispetto a come quello che fai tu fa reagire l’altro, e questo mi permette di pormi con gli atleti sempre in punta di piedi. Ogni ragazzo, ogni atleta, ogni persona ha un suo mondo e un suo equilibrio: non è che io devo entrare a gamba tesa e cambiargli tutto… Dobbiamo semplicemente trovare la vite giusta da stringere o allentare quel tanto necessario per far sì che il loro modo di ragionare, di sentire e di essere porti al meglio. E questo io certamente prima ancora che con lo studio l’ho imparato con i puledri: con i puledri è solo un lavoro di equilibrio molto sottile e raffinato».

 

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